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Eric

ERIC

Tino Berti
Fra tutti noi deportati degenti nel sanatorio di Vechelade, Eric era il più giovane. Avrà avuto si e no 17 anni. Alto, allampanato, biondo, con degli occhi chiarissimi, avrebbe potuto sembrare un giovane da manifesto della razza ariana se non fosse stato per quella leggera incurvatura che già denunciava, a quella giovane età, malattie e sofferenze.
Non mi ero accorto della sua presenza nel sanatorio, non avevo mai avuto l’occasione d’incontrarlo. Verso la metà di giugno del 1945 gli venne notificato l’ordine di trasferirsi in un sanatorio della Westfalia, vicino a Osnabrueck, ma egli rifiutò con con tutte le sue forze. Si trovava bene con noi, aveva legato con dei compagni italiani, tutti ex prigionieri di guerra, ed un giorno venne da me, accompagnato dai suoi amici italiani, che perorarono la sua causa e mi pregarono – dato che conoscevo la lingua – di intercedere presso il prof. Martin, nostro primario e nel contempo direttore del sanatorio, affinchè gli fosse concesso di rimanere a Vechelade.
Dopo alcune titubanze e dopo avergli spiegato che quello in cui sarebbe stato trasferito era un sanatorio vero, non un insieme di baracche attrezzate per l’emergenza, come quello in cui ci trovavamo, viste le lacrime che gli inondavano il viso, il prof. Martin si commosse e promise di aiutarlo.
Per tutta risposta Eric gli si gettò addosso e lo abbracciò, tanto che il primario mi chiese:” Ma cosa hanno fatto a quel ragazzo i suoi compagni italiani dal momento che lo vedo sempre così attaccato a loro?”
“Veramente non Le so rispondere” gli dissi” Io, è il primo giorno che lo vedo”.

Dopo il pasto serale, come al solito a base di scatolame, Eric venne a ringraziarmi ed io ne approfittai per chiedergli di quale nazionalità fosse e come mai, così giovane, si trovasse tra di noi.
Pensavo che fosse un giovane polacco anche se mi sembrava strano che i nostri soldati, che non amavano eccessivamente i polacchi, si fossero presi la briga di farmi intercedere per uno di loro.
Nei giorni successivi Eric prese l’abitudine di venire a trovarmi e fare con me una chiacchierata; con gli altri miei compagni italiani riusciva ad intendersi con quel po’ di tedesco che sapevano, con l’argot tipico che era diventato in Germania durante la guerra una vera e propria lingua dei Lager, ma non era in grado di affrontare una conversazione su un tema che magari quel giorno gli stava a cuore. Io, invece, ero curioso di sapere come fosse capitato tra noi, come si fosse ammalato e dalle mie domande lentamente uscì fuori la sua storia che era simile a quella di qualche altro ragazzo durante il nazismo.
La storia di Eric era così diversa da quella della gran parte dei giovani tedeschi della sua età che destò in me tanto interesse, da costringermi a prendere appunti perchè nei suoi lunghi racconti affioravano realtà che non avrei mai immaginato potessero esistere, in un regime tanto autoritario, tanto poliziesco e brutale, qual’era quello che dominava allora in Germania.
Era nato a Oppeln, una cittadina non lontana da Breslavia, dove suo padre era vigile del fuoco e la mamma maestra elementare. Il padre chiamato alle armi era morto nei primi giorni della invasione della Polonia, quando lui aveva dieci anni. Sua madre preferì abbandonare il suo lavoro ad Oppeln e trasferirsi con il suo bambino a Dormagen, un cittadina nei pressi di Colonia dove, oltre ad ottenere subito il collocamento come vedova di guerra, era anche la casa dei suoi genitori e avrebbe risparmiato così le spese dell’affitto che ad Oppeln gravavano non poco sul suo stipendio di maestra elementare.
Eric, a Dormagen, oltre alla scuola, dovette frequentare l’organizzazione giovanile nazista, la Hitlerjugend, che gli portava via tanto di quel tempo che egli invece avrebbe preferito dedicare al suo passatempo preferito, la lettura. Inoltre, quel dover essere sottoposto ad un giovane capo imbecille, che aveva la mania della disciplina e delle esercitazioni militari e che li ossessionava con la lettura continua dei comunicati trionfali del Comando supremo delle forze armate (OKW), nei quali venivano annunciate giornalmente vittorie e conquiste di territori che non destavano in lui alcun interesse, mentre gli ricordavano che per quelle vittorie e per quelle conquiste lui aveva pagato un prezzo altissimo: la vita della persona che più gli era stata cara e di cui sentiva la mancanza, suo padre. L’obbligatorietà di partecipare a quelle riunioni e di sottostare a quella disciplina militaresca lo faceva infuriare perchè si rendeva conto dell’inutilità di tutte quelle esercitazioni e di tutti quei discorsi pieni di paroloni come Volk e Vaterland che, purtroppo, lo avevano accompagnato per tutti quegli anni.
Riusciva a tollerare solo le esercitazioni che si svolgevano all’aperto, quando con cartina topografica in mano erano liberi di scorrazzare per le colline od arrivare anche in riva al Reno con il solo compito di documentare itinerari e cose viste.
Il Reno lo affascinava. Nonostante la guerra in corso, la navigazione sul quel grande fiume era intensa e lui la seguiva estasiato ed aveva deciso in cuor suo che si sarebbe più avanti iscritto ad un corso per diventare un comandante della navigazione fluviale. Non provava alcun interesse per il mare che non aveva mai veduto.
A scuola, ormai, aveva finito le elementari, come si chiamano da noi e al ginnasio aveva trovato un professore che, egli lo comprese subito, si era innamorato di sua madre e lo colmava di attenzioni che suscitavano salaci commenti dei compagni, i quali ignari del vero motivo sospettavano che Eric fosse diventato “l’amichetto” del professore.
La cosa a lungo andare lo turbò. Ne parlò con la madre e le manifestò il rifiuto di tornare a scuola. Il risultato fu una scenata che si trascinò per tutta una serata. La madre, quel professore, lo conosceva solo per averlo visto una volta ad una riunione di docenti, non aveva mai avuto l’occasione di scambiare qualche parola con lui.
L’indomani ritornò a scuola accompagnato dalla madre la quale invitò seccamente il professore in argomento a trattare suo figlio come tutti gli altri. L’atteggiamento scostante e quasi maleducato di sua madre diede i suoi frutti. Da quel giorno Eric non ebbe più quel trattamento preferenziale che faceva sghignazzare i suoi compagni ogni volta che veniva interrogato e che li inducevano ad avere con lui la mano pesante durante le riunioni della Hitlerjugend o durante le ore di ginnastica.
Durante quelle riunioni egli veniva continuamente additato come “il figlio di un eroe che aveva dato la vita per la grandezza del terzo Reich” come “l’orfano di un valoroso combattente” e spesso veniva anche rimproverato di mettere poco entusiasmo in tutte le manifestazioni che si svolgevano all’interno della Hitlerjugend oppure di essere troppo “molle”. Nessuno riusciva a comprendere che su di lui quelle riunioni e quelle esercitazioni non suscitavano alcun interesse e che ogni volta che nominavano suo padre o gli ricordavano la sua condizione di orfano di guerra, accendevano nel suo animo un odio profondo verso tutto quello che aveva attinenza con divise, guerre, armi e medaglie.
Si allontanava così, giorno dopo giorno, dalla gioventù nazista.
Un giorno gli chiesi: ” Allora tu, Eric, ti sei ammalato mentre frequentavi la scuola?”
“ No” mi rispose, “io mi sono ammalato nel Lager di Moringen”.
“Nel Lager di Moringen?”, gli chiesi meravigliato. “ Dove si trova questo Lager che io non ho mai sentito nominare? E per quale motivo sei stato deportato in un Lager?”
Mi raccontò che nel 1942, a tredici anni compiuti aveva lasciato la casa e si era aggregato ai “Navajos” di Colonia che, come i “pirati dell’Edelweiss” ed altre bande giovanili, si erano ribellati alla disciplina delle organizzazioni giovanili naziste ed alle parole piene di retorica con le quali si cercava di inculcare nei giovani l’amore per la patria, ma che in effetti doveva tradursi in amore per il partito nazista, l’onore di combattere per il Volk e Vaterland e tante altre cose che non sentiva.
“Nessuno di quelli che venivano a concionare nelle nostre riunioni mi avrebbe ridato mio padre. Vedevo ogni giorno quanto soffriva mia madre per la sua perdita. Erano ormai due anni che era morto ed ogni giorno al mio ritorno dalla scuola la trovavo con gli occhi gonfi ed arrossati e capivo che aveva pianto. Cercavo in tutti i modi di non darle dispiaceri; infatti a scuola mi comportavo benissimo, i voti erano sempre molto alti e spesso venivo additato come studente-modello. Mi sentivo, però, invecchiato prima del tempo: non partecipavo ai giochi dei miei compagni e non avevo mai voglia di ridere. Tutti avevano un padre con cui discutere, con cui confidarsi, a cui chiedere consiglio. Molti avevano il padre lontano, in guerra, ma ricevevano le sue lettere o delle cartoline che portavano a scuola e ce le leggevano. Io solo non avevo niente da portare a scuola e dio solo sa quanto ho invidiato i miei compagni per il solo fatto che avevano un padre”.
“Un pomeriggio ad una delle solite riunioni della Hitlerjugend” continuò a raccontarmi Eric, “arrivarono tre compagni, fra cui il nostro bellicoso capetto, tutti insanguinati, con le divise stracciate, senza pugnaletto e senza i distintivi. Piangevano a dirotto e spiegarono fra un singhiozzo e l’altro che erano stati affrontati per la strada da una delle bande che infestavano il paese e che non volendo cedere i distintivi ed i pugnaletti quelli se li erano presi e li avevano anche picchiati.
“Avevo sentito parlare di queste bande, sapevo che esistevano a Duesseldorf e che si chiamavano i “Pirati dell’Edelweiss”, ma non sapevo che ve ne fossero anche a Dormagen. Devo dire che il vedere quei tre mocciosi piangenti e strappati mi aveva fatto un piacere enorme e mi aveva anche incuriosito stimolandomi a prendere contatto con queste bande. Per quante ricerche facessi a quei tempi, ovviamente sotterranee e senza espormi troppo, non riuscii ad entrare in contatto con nessun elemento e nemmeno a conoscere il nome della banda che operava nella cittadina in cui abitavo.”
“Come hai fatto a trovare i Navajos e cosa ti ha spinto ad aggregarti a loro?”
“Un giorno in classe venne festeggiato il terzo anniversario della vittoria del nostro esercito sulla Polonia e ci venne dato un compito sull’amor di patria. Io lo svolsi scrivendo che dell’amore di patria non m’importava proprio niente, che la patria con quelle sue guerre interminabili mi aveva portato via la persona che più mi era cara e che adesso, mentre tutti i miei compagni avevano la possibilità di avere il padre col quale discutere, confidarsi, chiedere consiglio, io ero solo ed al ritorno dalla scuola trovavo mia madre con gli occhi arrossati, anche lei sola e triste. Per me la patria si era dimostrata solo una nemica e sapevo pure che non mi avrebbe ridato il mio babbo.”
Alla lettura del mio compito in classe successe un vero putiferio: arrivò il direttore che me ne disse di cotte e di crude. Venni additato e biasimato; tutta la scuola, non solo la mia classe, venne a sapere di questo mio compito che suscitò una generale indignazione per il fatto che il figlio di un “eroe” non avesse compreso niente del sacrificio di suo padre. Ci fu qualche insegnante che comprese il mio stato d’animo e cercò di consolarmi, ma la maggioranza mi bollò a fuoco e mi trovai ad essere il solo nemico della patria in tutta Dormagen. Mia madre venne chiamata dai superiori a rapporto; le fecero leggere il mio compito e la rimproverarono di farsi trovare dal figlio con gli occhi arrossati e di essere sempre triste, le dissero che doveva darsi da fare per riportarmi sulla retta via in quanto non era ammissibile che un ragazzo di tredici anni si comportasse da vero nemico del Reich tedesco.
Due miei compagni che avevano perduto il fratello in Russia, qualche settimana dopo si accodarono a me nel tragitto che ero solito fare per ritornare a casa e mi espressero tutta la loro solidarietà. Fu l’unico conforto che ebbi in quei giorni.”
“Era chiaro che dopo esser stato svillaneggiato davanti a tutti ed essere additato come un nemico della patria, io mi sentissi attratto sempre di più da quelle bande di cui avevo sentito parlare e con le quali non ero riuscito a prendere contatti. Un giorno, uno di quei compagni che aveva perduto il fratello in Russia mi raccontò che a Colonia, non lontano dalla stazione, si ritrovavano i giovani aderenti a quelle bande a cui anche la Gestapo dava spesso la caccia.”
“Anche se prendono uno di noi, finiscono col non fargli niente, siamo parenti di caduti in guerra” soggiunse “e sfido la Gestapo a farci qualcosa.”
La notizia delle bande di Colonia, vicino alla stazione, cominciò a rodere l’animo di Eric. Pensava a tutte le ore del giorno, ma per andare a Colonia bisognava aver qualche soldino da parte in quanto era necessario prendere il treno e rimanere qualche giorno in città per cercare di mettersi in contatto con loro. Decise di risparmiare sino all’ultimo centesimo, rinunciando persino a comperarsi qualche libro e quindi al suo svago preferito che era la lettura. La biblioteca della scuola, ormai, per lui non aveva più segreti, quello che si poteva leggere, l’aveva letto ed ora erano rimasti solo i libri che per lui non avevano più alcun interesse, quali “Mein Kampf” ed altre pubblicazioni di propaganda nazista. Per raggranellare qualche marco si decise ad aiutare i vicini nello scarico del carbone e della legna, a correre in bicicletta per fare delle commissioni, a vendere a qualche compagno qualche suo libro, sinchè durante le vacanze di Natale intraprese quel viaggio di qualche decina di chilometri per Colonia. Gli avevano detto che i “Navajos” si riconoscevano subito perchè ostentavano dei distintivi, ma non gli avevano detto come essi fossero fatti. Quando arrivò sapeva soltanto che molti indossavano una camicia a quadri.
Nel pomeriggio mentre assisteva dal marciapiede alla sfilata di una colonna di Hitlerjugend che, con zaini e tele da tenda si recavano ad un campo invernale, un ragazzo di qualche anno più vecchio di lui mormorò:”Ecco gli imbecilli che vanno a fare le loro esercitazioni. Li manderei a farle in Russia, quelle idiozie!”
Eric prese coraggio e commentò:”Non sono simpatici neanche a te, da quello che credo di aver capito”. “Li odio”, gli rispose.
Cosi Eric e Max fecero amicizia e in una latteria, davanti ad un bicchierone di latte caldo, si raccontarono le loro storie che erano differenti ma che avevano in comune alcune cose:il rigetto assoluto del nazismo, della guerra e delle organizzazioni giovanili del partito considerate da Max come un’accolita di mentecatti. Eric espose a Max i motivi che l’avevano spinto ad andare a Colonia e gli spiegò che aveva saputo che esistevano le bande e che voleva mettersi in contatto con loro perchè non aveva più voglia di vivere a Dormagen.
Max lo invitò a dormire a casa sua e l’indomani lo avrebbe accompagnato nel luogo dove di solito si riunivano quelle bande. Il giorno dopo Eric, con l’aiuto di Max, entrava a far parte dei Navajos. Rimase due giorni con loro poi, dopo aver promesso che appena avesse sistemato i rapporti con la madre sarebbe ritornato, salì sul treno e tornò a casa. Durante quel breve viaggio sprizzava contentezza da tutti i suoi pori. Finalmente aveva trovato qualcosa che lo interessava e degli amici sinceri che non si camuffavano sotto pseudo amori di patria o scimmiottavano i soldati che combattevano!

Ogni giorno la visita e la chiacchierata con Eric mi riservavano delle sorprese.
Non avevo mai sentito parlare dei Lager giovanili e Moringen era uno di questi; Eric ne conosceva alcuni altri, ma secondo lui Moringen era il peggiore dove i giovani morivano come le mosche anche senza esser sottoposti a lavori pesanti. In questi Lager si trovavano giovani arrestati per tutta una serie di motivi il cui elenco, diceva Eric,”avrebbe occupato pagine e pagine di un quaderno”
I giovani deportati in quel Lager avevano un’età compresa tra i quattordici e i diciott’anni. Le categorie principali erano i “politici”, quelli appartenenti alle varie bande che si erano formate dal 1938 in poi e che occupavano praticamente tutta la Germania dal Reno all’Oder pur avendo nomi e connotati politici diversi.
I “Pirati dell’Edelweiss” che operavano a Duesseldorf, dove lui si rifugiò dopo l’impiccagione di un suo compagno avvenuta in una piazza di Colonia, erano influenzati dal KPD (il partito comunista) come pure i gruppi che si erano formati a Lipsia ed in tutta la Sassonia e che da quanto aveva compreso dai compagni di Moringen erano numerosissimi. Quelli che se la passavano meglio nel Lager di Moringen, secondo quanto egli aveva potuto osservare, era quel numero rilevante di ragazzi arrestati e deportati per altri motivi che non fossero quelli dell’appartenenza alle varie bande, cioè ragazzi arrestati per crimini comuni, degli asociali, dei borsaneristi, dei disoccupati cronici, ecc. ecc.
Molte di queste bande, erano armate e, non poche volte, avevano sostenuto degli scontri a colpi d’arma di fuoco con la polizia e con la Gestapo che negli ultimi anni del regime dava loro una caccia spietata. Vi erano pure rinchiusi figli della buona borghesia tedesca, appartenenti al movimento “Swing” che si richiamava alla musica Jazz, allora proibita in Germania.
Nel Lager si moriva di dissenteria e di tubercolosi, soprattutto. E purtroppo chi ne faceva le maggiori spese erano proprio i ragazzi delle bande; ragazzi che avevano rotto i ponti con la famiglia, molti dei quali avevano anche dato un nome falso all’atto dell’arresto perchè avevano già qualche precedente con la giustizia ed inoltre le loro famiglie erano quasi sempre proletarie e non sempre erano in grado, nell’ultimo anno di guerra con le razioni del tesseramento sempre più scarse, d’inviare pacchi di alimenti. Eric si considerava un fortunato perchè la madre, con l’aiuto dei vicini di casa, riusciva a mandargli di tanto in tanto un pacco di viveri che ovviamente veniva diviso con i compagni Navajos deportati assieme a lui. Anche una ragazzina, che aveva conosciuto a Colonia e di cui si era innamorato, la quale lavorava in una mensa dell’artiglieria contraerea, per parecchi mesi gli aveva inviato dei pacchi che contenevano anche dello zucchero e dei grassi. Una volta gli aveva inviato addirittura un grosso salame di Wurstel.
Un mattino ci trovammo assieme nella saletta dell’ambulatorio e attendevamo che ci facessero il rifornimento d’aria, volgarmente detto il pneumotorace. Eric aveva gli occhi arrossati e lo vidi triste e pallido. Ero abituato vederlo sempre allegro, pieno di vita e dopo un po’ di tempo che era seduto senza parlarmi o chiedermi qualcosa com’era solito fare, gli chiesi cosa avesse e se per caso la sua paura non fosse collegata con il grosso ago che il medico doveva infilargli nel petto.
“No”, mi rispose, “tutta la notte ho pensato a mia madre che è rimasta sola ed alla mia ragazza di Colonia. Nè loro hanno mie notizie, nè io riesco ad averne da loro. Avevo pregato uno degli ufficiali francesi che era venuto a prendere i suoi compatrioti per rimpatriarli di imbucarmi due lettere il più vicino possibile a Colonia, ma forse se ne sarà dimenticato oppure non l’avrà fatto perchè le lettere non erano affrancate.Sono ormai 5 mesi che sono senza notizie. Spero solo che ciò sia dovuto all’arrivo degli alleati al Reno che in un primo tempo avevano tagliato fuori sia Dormagen che Colonia e che adesso che tutto si sta lentamente stabilizzando e normalizzando mi arrivino prima o poi le risposte alle mie lettere”.
Alcuni soldati italiani prigionieri in uno Stalag, una sera mi raccontarono l’episodio relativo alla visita ricevuta in quel campo da emissari della Repubblica di Salò che li volevano convincere a tutti i costi ad aderire alla stessa. In cambio, promettevano la liberazione, il rientro in Italia e l’arruolamento nelle formazioni militari della repubblica di Mussolini. Eric come sempre era presente e dopo che gli avevo tradotto il senso del racconto dei militari, ci raccontò a sua volta delle sghignazzate che accompagnavano la fine dei discorsi dei gerarchetti nazisti che venivano inviati a Moringen per indottrinare i giovani deportati colà rinchiusi. Risate, fischi ed urla accompagnavano alla porta l’oratore: ciò successe tre o quattro volte. Poi quelle lezioni furono interrotte.
“Quando ritornasti a casa da Colonia, cosa dicesti a tua madre? Che te ne andavi da casa? Che la lasciavi sola? Che abbandonavi la scuola ?”
“Con mia madre il rapporto è stato sempre meraviglioso. Era innamorata di mio padre e la ferita, dovuta alla sua morte in lei non si è mai cicatrizzata. Non me lo disse mai, ma io lo compresi ben presto che odiava chi gli aveva rubato il marito. Pur essendo mio padre morto in combattimento in Polonia, quindi certamente ucciso da qualche polacco, non l’ho mai vista risentita con qualcuno dei tanti polacchi che lavoravano nella nostra città. Anzi, considerava anche loro delle povere vittime del periodo che tutti noi attraversavamo.
Fra Natale e Capodanno la radio continuava a dare senza interruzione notizie sui nostri eroici soldati che difendevano Stalingrado. Io non sopportavo più nè la declamazione retorica dei commentatori radiofonici, nè quell’odioso parlare di difesa strenua di ogni centimetro di terreno da parte dei nostri soldati. Pensavo che ogni centimetro di terreno conteso ai russi veniva sicuramente pagato con la vita di un soldato tedesco ed il pensiero correva sempre a mio padre che nessuno mi avrebbe restituito. Pregavo la mamma di spegnere la radio dicendole che odiavo tutto ciò che sapeva di Patria, di guerra, di Hitler e di Hitlerjugend e che non sarei andato a scuola alla ripresa delle lezioni. La mamma si spaventò e si mise a piangere; mi chiese cosa avessi intenzione di fare; mi fece osservare che non avevo neanche l’età per trovare un qualsiasi lavoro. Mi pregò di pensare bene prima di abbandonare la scuola, di non darle un dispiacere così grande. Cosa avrebbe detto alle autorità scolastiche che certamente l’avrebbero convocata allo scopo di conoscere i motivi delle mie assenze e del desiderio di non a continuare gli studi? ”
Risposi che ci avrei ancora pensato, ma che a me di rimanere con quella gentaglia che mandava il prossimo a morire in terre lontane per scopi che niente avevano a che fare con la difesa dei nostri confini, non andava proprio.
Il giorno dell’Epifania, mia madre sarebbe rimasta tutto il giorno fuori di casa perchè andava ad assistere una collega ammalata in un paese vicino, feci un fagotto delle cose che mi sarebbero servite, lasciai un biglietto sul tavolo della cucina e me ne andai. Sono così ben trenta mesi che non vedo mia madre.
So che venne a Moringen per visitarmi e mi lasciò un pacco di indumenti, ma le SS non le permisero di vedermi”.
Il racconto di Eric si sviluppava giorno per giorno come un romanzo d’appendice, quelli che prima della guerra apparivano a puntate nell’ultima pagina dei nostri quotidiani. Eric si era accorto che senza volerlo, era diventato un pacifista. La violenza, dopo l’esperienza fatta con i Navajos di Colonia ed i due mesi trascorsi, dopo la fuga da Colonia, con i “pirati di Knittelbach” non riusciva più a sopportarla, gli incuteva terrore.
La sera, dopo aver ascoltato Radio Lussemburgo, l’unica voce in lingua italiana che la radio del nostro sanatorio riusciva a captare, ci sedevamo in parecchi davanti alla mia baracca e si parlava del nostro ritorno a casa, delle cure, delle prospettive che qualcuno di noi aveva di impiegarsi, nonostante la disoccupazione che avremmo trovato nei nostri paesi con la smobilitazione di milioni di persone. “ E tu, Eric, cosa farai quando sarai guarito?” gli chiesi una sera. “Non lo so: non so fare niente. Cercherò di imparare a fare qualcosa”, mi rispose “ forse mia madre mi aiuterà nei primi tempi, forse riprenderò a studiare. Mentre attenderò una sistemazione e continuerò le cure mi piacerebbe raccontare la mia esperienza nelle bande giovanili e quella fatta nel Lager di Moringen.”
“E’ un’ottima idea “ gli dissi “specie se riuscirai a ritrovarti con i vecchi compagni e assieme ricostruirete quelle vostre avventure, nella Germania in guerra, tra Gestapo, polizia e Hitlerjugend.”
Parlandomi di Moringen mi raccontò che esistevano altri Lager dove erano stati deportati altri giovani delle bande e che esistevano pure campi di rieducazione veri e propri che servivano però non per rieducare i giovani, come voleva il regime nazista, ma al contrario, per formare dei veri e propri antinazisti. Infatti, nel suo Lager, i più politicizzati erano proprio quei suoi compagni che provenivano dai campi di rieducazione ed i giovani “pirati dell’Edelweiss” provenienti tutti da Dueseldorf che, secondo lui, appartenevano ad una vera e propria centrale antinazista. A Moringen furono costoro che lentamente, cominciarono a fare opera di educazione politica e già nel treno che li trasportava nel Lager egli si accorse che quei ragazzi di Duesseldorf erano politicamente molto più preparati dei Navajos di Colonia.
A Colonia aveva imparato ad usare le armi. Durante i loro “campeggi” sulle colline non molto distanti si divertivano a sparare con le armi rubate nei depositi militari che la Wehrmacht ormai non custodiva più con la prudenza di un tempo: si notava un certo lassismo anche tra i militari ed era facile procurarsi un fucile e delle scatole di munizioni. I loro spari attiravano reparti interi di perlustratori, ma quando quelli arrivavano nei luoghi indicati da chi aveva udito gli spari non trovavano più nessuno. Con le biciclette erano fuggiti.
Nell’agosto del 1944 a Colonia avvennero degli scontri armati con la polizia. Ci fu una grossa retata di Navajos e la Gestapo impiccò in una piazza della città un suo caro amico di sedici anni, di nome Barthel. Secondo Eric quella fu la scintilla che scatenò una guerriglia quasi quotidiana contro polizia, Gestapo e Hitlerjugend i quali vigliaccamente cominciarono allora a defilarsi e a nascondersi. In una di quelle operazioni di guerriglia urbana nel mese di ottobre venne ucciso il capo della Gestapo di Colonia. Si paventava che ottenuti rinforzi dalle città vicine la Gestapo infierisse ferocemente sugli appartenenti delle bande che fossero caduti nelle sue mani, per questo fu consigliato ai più giovani Navajos di cambiare aria; solo i più vecchi, diciassettenni e diciottenni rimasero a Colonia ad affrontare le ire della Gestapo.
Sua madre gli portò degli indumenti presso una famiglia amica e rimase alcuni giorni a Colonia per rivederlo. Eric schivò l’incontro con sua madre mandando l’amichetta a ritirare il pacco e poi partì con altri compagni alla volta di Duesseldorf dove ebbe modo di assistere all’agonia del grande esercito tedesco. La confusione ed il caos erano subentrati all’organizzazione: lavoratori coatti, ed ex deportati fuggiti dai Lager giravano per la città, i disertori si contavano a decine, armi se ne trovavano dappertutto, l’anarchia regnava sovrana.
Nel mese di ottobre, mentre svaligiavano un magazzino viveri vennero arrestati in tre e furono loro trovate addosso delle pistole. La settimana dopo erano già a Moringen e fu la loro fortuna. I giovani della Hitlerjugend che loro avevano sonoramente picchiato qualche giorno prima, passarono nella caserma della Gestapo per individuare chi li aveva assaliti e picchiati il giorno dopo la loro partenza da Duesseldorf e non riconobbero così, tra quelli presenti, i loro assalitori. Fu la loro fortuna perchè in caso di riconoscimento la Gestapo li avrebbe lasciati in balìa dei giovani nazisti che, protetti dai poliziotti li avrebbero picchiati per delle ore rendendoli irriconoscibili. Fatti del genere erano avvenuti più volte nelle caserme della Gestapo.
Un giorno, eravamo ormai entrati da qualche settimana nell’estate, il Tam-Tam, come lo avevano battezzato i compagni italiani e che in sostanza era la versione sanatoriale di “radio fante”, ci informò che stavano arrivando visite per Eric.
L’indomani, durante il pranzo, vedemmo entrare nella nostra baracca-refettorio una signora molto bella, sulla quarantina, accompagnata dal nostro dottor Ludwig che ci passava in rassegna, ma Eric che stava mangiando e le voltava la schiena non si accorse del suo arrivo. La signora, dopo averci guardato uno per uno si volse verso il medico esprimendo delusione. Allora il medico chiamò ad alta voce:”Eric, hai visite!”
Eric, alzò la testa dal piatto e senza voltarsi rispose che lui riceveva dalle nove alle dieci. Ora era impegnato col pranzo. Pensava che fosse uno scherzo, mi racconterà qualche giorno dopo.
Sua madre, sentendo la sua voce riuscì ad individuarlo e si slanciò nella sua direzione, lo abbracciò, rovesciandosi addosso il piatto di minestra. Tutti e due rimasero abbracciati a lungo piangendo a dirotto.
A molti di noi, affascinati da quell’incontro, sgorgarono le lacrime. Era, pensavo, l’anteprima di quello che sarebbe stato, per quelli di noi che sarebbero riusciti a sopravvivere alla malattia, l’incontro con i propri cari. Su tutti i nostri visi, vidi espresso un senso di tristezza, quando, invece, il ricongiungimento di madre e figlio avrebbe dovuto farci felici e procurarci tanta allegria.
Un compagno russo ruppe il silenzio e il nostro imbarazzo, andando verso Eric e sua madre per esprimere a nome di tutti noi, la felicità per quell’incontro e la speranza che la stessa cosa potesse avvenire per tutti noi in tempi vicini. Fu salutato da uno scrosciare di applausi e ricevette un forte abbraccio dalla madre di Eric.
La sera stessa dopo cena, mentre eravamo seduti davanti alla nostra baracca e discutevamo sulla fortuna che aveva avuto Eric nel poter riabbracciare sua madre, comparvero entrambi. Eric aveva voluto che ella mi conoscesse e conoscesse pure i suoi amici italiani. Trascorremmo cosi due ore in loro compagnia parlando della guerra e del dopoguerra. La mamma ci raccontò come era avvenuta la liberazione della sua zona, ci parlò della sparizione di tutti coloro che sino al giorno prima erano dei nazisti convinti e che da un giorno all’altro erano stati folgorati dalla democrazia, ci raccontò pure della sua inutile visita a Moringen, dove venne trattata dalle SS che custodivano quel Lager come una prostituta e solo quando trasse fuori dalla borsetta il suo documento di vedova di guerra e glielo sbattè in faccia, il sottufficiale accettò di far pervenire ad Eric il pacco che lei si era trascinato dietro in quel lungo viaggio effettuato tra allarmi aerei e mitragliamenti.
Rimase con noi una decina di giorni ed avemmo la possibilità di raccontarle le nostre esperienze in terra tedesca. L’incontro con il figlio le aveva giovato: ogni giorno la vedevamo rifiorire; da bella, quale l’avevo giudicata nello stesso momento che era apparsa nel refettorio, adesso la trovavo bellissima. Della stessa opinione deve esser stato uno dei nostri medici che cominciò a corteggiarla.
Eric le era sempre attaccato, solo di tanto in tanto trovava il tempo di venire a trovarmi e si scusava perchè in quei giorni trascurava la nostra compagnia. Noi lo prendevamo in giro. Mangolini, un romagnolo simpatico e burlone gli chiedeva:”Ti ha allattato?” Eric non comprendeva la domanda ed io dovevo tradurgliela fra le grandi sghignazzate dei compagni.
La madre ripartì ed Eric rimase con noi. Era completamente cambiato. Parlava del suo futuro con un certo coraggio. Ci disse che aveva intenzione di riprendere gli studi e vedeva l’avvenire roseo. Aveva dato alla madre l’indirizzo della ragazzina di Colonia e sperava che la stessa potesse un giorno o l’altro a venire fargli visita.
Rimanemmo ancora un mese assieme, poi anche noi, finalmente, partimmo per andare in un altro ospedale da dove ci “imbarcammo” sul treno che ci avrebbe riportato in patria.
Eric rimase a Vechelade ancora qualche mese. Mi scrisse due o tre volte e poi non seppi più nulla di lui. Mi trovavo ricoverato in un sanatorio della Carnia, quando nel marzo del 1946 mi arrivò una lettera listata a lutto dove la mamma di Eric mi informava che in seguito all’aggravarsi della malattia, il giorno di Natale, Eric era morto.

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