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Cinque giorni di lutto, un giorno di imbarazzo: il 25 aprile oscurato dalla sobrietà di Stato

In Italia, terra dalla memoria corta ma dal cuore resistente, accade l’incredibile: mentre la Repubblica si prepara a commemorare il giorno della sua rinascita, la Liberazione dal nazifascismo, il governo proclama cinque giorni di lutto nazionale per la morte di Papa Francesco. Una durata senza precedenti, nemmeno per Giovanni Paolo II, nemmeno per le vittime di stragi, terremoti o attentati.
Una decisione che sa di occasione colta al volo, o meglio, di strategia. Perché la sobrietà invocata dall’esecutivo durante il 25 aprile – ufficialmente per rispetto alla figura del Pontefice – somiglia più a un invito silenzioso a spegnere l’amplificatore della memoria antifascista.
Un governo che non è antifascista
Il contesto è chiaro, anzi chiarissimo. Al governo oggi c’è un partito, Fratelli d’Italia, che nasce dal Movimento Sociale Italiano, a sua volta erede diretto della Repubblica di Salò. Un partito nato “mascherato”, già dal nome, per evitare il riferimento esplicito al fascismo. Ma i simboli, i richiami identitari, e soprattutto i silenzi del presente raccontano tutto ciò che serve sapere: la fiamma tricolore arde ancora, e chi la guida oggi al potere non si è mai detto antifascista.
Ecco quindi che il lutto nazionale diventa occasione politica: cinque giorni per stemperare, per raffreddare, per spegnere le piazze e svuotare le agende culturali. Salta un festival, si rimanda un’inaugurazione, si spegne una musica. Tutto legittimo, tutto apparentemente rispettoso.
Ma il dubbio è lecito: questa sobrietà è davvero per Francesco? O è contro la Resistenza?
La sobrietà imposta nel giorno della Resistenza
Nessun altro lutto nazionale ha mai goduto di tanta estensione. Nemmeno per disastri naturali che hanno causato centinaia di morti. Nemmeno per figure istituzionali fondamentali per la storia della Repubblica. Eppure, il 25 aprile è il giorno fondativo della nostra democrazia. Eppure, quella memoria andrebbe oggi più che mai coltivata con coraggio, con voce alta, con canti e bandiere. Perché oggi, più che mai, è sotto attacco.
Il ministro Musumeci parla di “afflusso popolare straordinario” e di “anno giubilare”, ma il tempismo resta sospetto. Perché proprio ora, proprio così a ridosso del 25 aprile? Perché imporre il silenzio proprio quando la memoria chiede voce? Non è la prima volta che membri dell’attuale governo disertano le celebrazioni della Liberazione. Non è la prima volta che si tenta di relativizzare il significato storico dell’antifascismo, derubricandolo a fazione ideologica.
Onorare la memoria, anche quella di Francesco
Ma la memoria, quella autentica, non si addomestica. Non si rinvia, non si modera, non si silenzia. Il 25 aprile è il giorno in cui l’Italia ha deciso di essere una Repubblica democratica, e antifascista. Non è un’opinione: è scritto nella Costituzione, è inciso nella nostra storia.
E forse, proprio Papa Francesco, che ha più volte denunciato i nazionalismi, le nostalgie autoritarie, i muri culturali e politici, non avrebbe mai voluto che il suo nome fosse usato per spegnere la celebrazione di chi ha combattuto per la libertà.
Ora più che mai, facciamo rumore
In questo scenario, l’unico vero atto di rispetto – verso la Repubblica, verso la Storia, verso Papa Francesco – è celebrare la Liberazione con ancora più forza, con ancora più consapevolezza.
Cantare Bella Ciao, suonare nelle piazze, portare i giovani sotto le lapidi dei partigiani, raccontare la storia vera, quella senza revisionismi né censure.
Perché ogni tentativo di spegnere il ricordo è un segnale che quel ricordo fa ancora paura. E proprio per questo, deve vivere più forte che mai.
Fabrizio Cremonesi
Flavio Mantovani

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