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#AppuntidiSvista: Da quel treno per l’avvenire

Da quel treno per l’avvenire

Dicono che la prima volta in treno non si dimentica mai, e io spero che sia veramente così.
Fuori dal finestrino il mondo sfreccia come se ci volesse scappare di mano, veloce e inosservato, si dimentica che noi lo abitiamo, è come se volesse farci il dispetto di ignorarci.
Le gallerie… adoro le gallerie! Mi fanno sentire così libera… talmente buie e chiuse che si sente il sapore della libertà, l’essenza del viaggio e la nostalgia del ritorno.
Prima fermata a Reggio Emilia, il treno piano piano rallenta, come se dovesse cercare per la prima volta il suo binario, la sua fermata.

Noi giovani siamo come il treno: viaggiamo, viaggiamo e poi ci fermiamo, pensando che sarà per sempre, promettendoci l’infinito; poi invece ripartiamo, pronti per un altro breve e piccolo infinito.
Viviamo nell’illusione che il mondo sia fatto per noi, che sia nostro, pronto ad accogliere il nostro futuro e i nostri sogni.

Intanto un’altra galleria, questa volta il treno rallenta fino a fermarsi del tutto a Bologna. La stazione è buia, triste, prevalentemente grigia, deprimente al punto giusto per chi voglia dimenticarsi della serenità.

Una bottiglietta d’acqua frizzante cade da uno zaino, schizza qua e là bagnando il signore seduto accanto a me, adesso la battuta “beh, almeno si può dire che sarà una giornata frizzante” è d’obbligo!
(Giusto per peggiorare ulteriormente la situazione)
Rimetto le cuffie, premo “play” e torno a guardare il mondo dal mio piccolo mondo inventato.

Il treno continua la sua corsa verso la città eterna, tra una galleria e l’altra si intravedono il sole e le montagne, il tutto deliziato da un rancido tanfo di indefiniti esperimenti culinari fatti nelle cucine dei Frecciarossa italiani (sperando che il tanfo provenga dalla cucina e non da altri posti!).

E intanto siamo a Firenze, immersi nel clima nuvoloso e silenzioso che le montagne offrono ai loro visitatori nei primi giorni di primavera.

E corre, il treno corre come a volersi sbarazzare di noi, corre dentro le gallerie, esce per salutare il sole e poi si nasconde di nuovo.
Quelle poche case e macchine che riusciamo a intravedere nella corsa racchiudono in loro un paio di storie, come anche tutte le persone che si avventurano nelle stazioni. Sono tutte storie che ci scappano di mano, come il fumo che esce dalla bocca di quella signora che assapora la sua sigaretta proprio di fronte al mio finestrino, il fumo che le bacia le labbra e poi si perde nel vento è come se fosse la sua anima; “in primis labris animam haberi”, diceva Seneca (“avere l’anima a fior di labbra”).
*Pelle d’oca al solo pensiero*.
Sono storie, quelle che perdiamo, che si lasciano alle spalle ulteriori pagine bianche da riempire con ennesimi sguardi persi e sconosciuti che si dicono “ciao, piacere! Scusa ma devo scappare a rincorrere il futuro, spero di rincontrarti lì!”.

E intanto il treno è ripartito.
Stavolta va in senso opposto, quindi il mondo mi arriva da dietro, e mi mostra tutte le cose che ho alle spalle, riportandomi frammenti di passato, riportandomi ricordi non ancora rivissuti, e io li prendo, li prendo tutti senza mollare la presa, con la paura di perdere l’avvenire, di non riuscire a dire quello che ho da dire.
E guardo le colline incastrarsi, vedo contadini che lavorano la terra, casolari sparsi qua e là, e penso a Pascoli, alla sua ala di gabbiano, e poi in volo sul gabbiano, arrivo al mare.

Al limite tra la fine e l’inizio, tra l’attesa e l’impazienza.

Appoggio la testa al finestrino ascoltando la prepotenza del vento contro il treno; non guardo fuori, guardo gli altri finestrini e incrocio lo sguardo di un altro viaggiatore; lui è sconosciuto a me, io sono sconosciuta a lui, ma per un secondo i nostri occhi si dicono “eh… che ci vuoi fare? E’ così!”

E allora trovo il coraggio di guardare ancora fuori, tanto so che ormai “è così”, tanto vale godersi tutto questo “così” e prenderne parte.

Cara ragazza sognatrice, il mondo l’ha inventato per te il tuo destino, ora tu inventati il mondo, inganna il destino!

Ligabue, sì proprio lui… quello che stai ascoltando adesso, canta: “sono sempre i sogni a dare forma al mondo”, quindi tira fuori tutta la fantasia che hai e sii il tuo sogno, il tuo mondo.

Un fiume, chissà quale.
Direi il Tevere, ma le mie scarse competenze in geografia mi consigliano di evitare soluzioni affrettate.
C’è comunque un fiume, e il sole e la natura, e niente fa più silenzio.
Il panorama mi ricorda un po’ il viaggio in Sicilia dell’anno scorso, dove tutto era come doveva essere, e andava bene così.

Sono le 10.37, mi godo ancora un po’ questo panorama di sfuggita, con la mia piccola finestra sul mondo, e lì davanti c’è l’ultimo casolare…
L’ultimo casolare distrutto dal tempo, dall’uomo nel tempo.

Ora sono alla soglia della fine del liceo, aspetto il treno che mi porti nel futuro, seduta su questo banco che sembra la panchina di una stazione del treno, con qualche bagaglio e scatolone da dovermi portare all’università.
In tasca tengo i ricordi più forti, quelli che ancora mi graffiano la pelle, quelli che mi prendono la bocca dello stomaco e me la strappano via, quelli che io chiamo “ricordi-emozione”.

Giovedì 4 maggio 2017, ore 22.40.
Sto rispolverando questo reperto e rivivendo con l’anima i ricordi del liceo; le lacrime agli occhi, il magone che mi impedisce di mandare giù la saliva, la disperata ricerca del tasto “replay”, l’immagine fissa dell’imperativo “follow”, il continuo cercare parole e pretesti per evitare di mettere il punto, il rifiuto totale dell’espressione “the end”, la mancanza di idee per il successivo capitolo, la mano sulla fronte come a spronare le idee, il leggio vuoto di libri, la data “8 giugno” cerchiata in rosso sul calendario, i disegni di croci e lapidi sui giorni 21, 22 e 26 giugno, la mappa della tesina su “il fanciullino e il mondo possibile” abbandonata in un angolo della scrivania, la voglia di tornare bambina, la fretta di crescere, la paura di muoversi, il fiato che viene a mancare per via della monotonia, la speranza di non perdere i rapporti intrapresi negli ultimi tempi, l’idea di non mettere il punto a tutto questo e sostituirlo con il punto e virgola.
La frase finale perfetta che non trovo, la consapevolezza che
Ho smesso di esser capace
di andare dove mi porta il cuore.
Ora mi limito solo
a portare il cuore ovunque vado…”
(Federica Perdoncin; #AppuntidiSvista)

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redazione recsando – Federica Perdoncin
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