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Allarme Unesco, il clima impazzito minaccia i monumenti Patrimonio dell’Umanità

Allarme Unesco, il clima impazzito minaccia i monumenti Patrimonio dell’Umanità

Per l’agenzia Onu, entro il 2030 il cambiamento climatico mette in pericolo 31 siti tra i più celebri siti turistici del Pianeta. A rischio oltre a Venezia anche Stonehenge, la Statua della Libertà e Yellowstone

 
 
 
di giorgia marino
 

Immaginate un mondo in cui Venezia abbia perso il suo secolare duello contro le acque della Laguna e la Statua della Libertà sia stata affondata da un uragano. Un mondo in cui i moai di Rapa Nui crollino uno dopo l’altro, erosi alla base dal mare che fissavano enigmatici da quasi due millenni, e le barriere coralline scompaiano, portandosi via il loro tesoro di biodiversità, uccise dall’acidità degli oceani. Un mondo senza Mont Saint Michel e senza Stonehenge, senza i gorilla di montagna dell’Africa centrale, i draghi di Komodo e gli orsi grizzly di Yellowstone. Non è un incubo fantascientifico buono per il prossimo colossal hollywoodiano: è lo scenario (il peggiore, certo) paventato dall’ultimo rapporto Unesco sui cambiamenti climatici e i loro effetti sui siti Patrimonio dell’Umanità. 

 

 

Il rapporto World Heritage and Tourism in a Changing Climate , stilato e diffuso oggi dall’Unesco, dall’Unep (United Nations Environment Program) e dall’Ucs (Union of Concerned Scientists), parla chiaro: “Il cambiamento climatico sta diventando uno dei maggiori rischi per i siti Patrimonio dell’Umanità in tutto il mondo”. Scienziati e analisti, guidati dal professor Adam Markham, si sono concentrati su 31 casi-studio sparsi in 29 località, dalla Groenlandia al Sud Africa, dal Brasile al Giappone, passando naturalmente per la vecchia Europa. Ma i luoghi, i monumenti, le bellezze naturali in pericolo sono molti di più, e basterebbe ricordare l’indagine condotta nel 2014 dall’Università di Innsbruck con l’Istituto di Ricerca sull’Impatto Climatico di Potsdam, che individuava ben 130 siti Unesco minacciati dall’innalzamento del livello dei mari. 

 

 

La storia è nota: la temperatura globale è aumentata di 1°C dall’era pre-industriale, con un’impennata a partire dagli anni ’50 e senza che il trend accenni ad arrestarsi; nell’atmosfera si registra oggi la concentrazione di CO2 più alta degli ultimi 800mila anni; il trentennio che va dal 1983 al 2012 è stato per l’emisfero settentrionale il più caldo in 1400 anni. Un clima più caldo porta a un aumento dell’acidità degli oceani (+26% rispetto all’era pre-industriale), allo scioglimento di ghiacciai e calotte polari, a una maggiore frequenza di eventi meteorologici estremi come tempeste, uragani, tsunami, siccità, a fenomeni di desertificazione, a incendi estesi e indomabili. 

 

Sono stravolgimenti che si riflettono innanzitutto sugli equilibri degli ecosistemi, e se è vero che un certo grado di resilienza naturale consente in alcuni casi l’adattamento, la velocità dei cambiamenti può però essere letale per quelli più delicati. Ad esempio le barriere coralline: sono lì, nei mari tropicali come quelli della Nuova Caledonia, da centinaia di milioni di anni e negli ultimi 400mila sono riuscite ad adattarsi a vari mutamenti ambientali relativamente lenti; ma in questi 140 anni l’accelerazione del riscaldamento climatico e l’acidificazione delle acque marine le hanno messe a dura prova. Secondo il rapporto Unesco, il 70% di questo tesoro naturalistico potrebbe essere irrimediabilmente compromesso entro il 2030. Per salvarne almeno la metà bisognerebbe limitare l’innalzamento delle temperature a 1,2°C: un traguardo decisamente più ambizioso di quello del “ben al di sotto i 2°C” prospettato alla Conferenza sul Clima di Parigi. 

 

E a rischiare non è solo la biodiversità marina. I cambiamenti del clima si sommano in una drammatica sinergia a fattori come l’inquinamento, l’urbanizzazione, le guerre, la povertà, lo sfruttamento incontrollato delle risorse e, non da ultimo, l’aumento del turismo di massa, minacciando sempre più seriamente santuari naturalistici, parchi e aree protette. Come il Parco Nazionale Impenetrabile di Bwindi, in Uganda, dove vivono gli ultimi gorilla di montagna, o il paradiso botanico di Cape Floral Kingdom, in Sud Africa; lo straordinario scrigno di biodiversità delle isole Galapagos, che ispirarono a Darwin la teoria dell’Evoluzione, o, ancora, il Parco Nazionale di Komodo, in Indonesia, casa degli unici 5000 esemplari del famoso drago, un delicato lucertolone per il quale l’aumento delle piogge e la variazione della vegetazione potrebbero rivelarsi letali. Persino la roccaforte di Yellowstone, il più antico parco naturale del mondo, è in pericolo: le sue monumentali foreste sono attaccate da sempre più frequenti incendi e le temperature più alte hanno portato alla diffusione del micidiale scarabeo dei pini, piccolo devastatore che distrugge la fonte principale di cibo per diverse specie, tra cui lo scoiattolo rosso e l’iconico orso grizzly

 

Se le specie a rischio a volte riescono a salvarsi migrando in altri territori e attuando istintive strategie di resilienza, per monumenti e tesori archeologici invece non c’è scampo: “una volta persi – avverte l’Unesco – lo saranno per sempre”. Sono 13 i siti culturali presi oggi in considerazione dal rapporto: si va dalla Statua della Libertà, che ha subito gravi danni dall’uragano Sandy nel 2012, ai celeberrimi moai dell’Isola di Pasqua; dai santuari scavati nella roccia di Ouadi Qadisha, in Libano, alle terrazze di riso delle Filippine; dall’antica città di Hoi An, in Vietnam, ai misteriosi dolmen neolitici di Stonehenge, fino, naturalmente, alla nostra Venezia. 

 

A metterli a repentaglio sono l’erosione delle coste, l’umidità e le piogge più frequenti, i repentini cambi di temperatura, i fenomeni meteorologici incontrollabili. A rimetterci saranno la cultura e la civiltà, impoverite di alcuni dei loro più magnifici simboli; ma anche l’economia, se si considera che il turismo, uno dei settori in più forte crescita e oggi responsabile del 9% del Pil mondiale, già sta subendo duri contraccolpi per l’insicurezza climatica che viviamo. 

 

Paradossalmente, l’unica regione a trarre vantaggio economico dal clima impazzito è la Groenlandia. L’impressionante fiordo di ghiaccio di Ilulissat, uno dei siti Unesco che corre il maggior pericolo di scomparire, è diventato la meta prediletta di un certo turismo da catastrofe ambientale, che accorre alla frontiera del cambiamento climatico per godere di un paesaggio mozzafiato e insieme assistere al suo inesorabile scioglimento. La domanda è: fino a quando? 

 

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