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Storia di una fabbrica recuperata

La RiMaflow di Trezzano sul Naviglio (Mi). Storia di una fabbrica recuperata nel racconto di Massimo Lettieri
 

“RiMaflow non è solo una cooperativa, RiMaflow è un’idea, una comunità; ci sono associazioni tra cui Fuorimercato e Occupy Maflow, ci sono i laboratori artigianali (circa trentacinque, quaranta), dove lavorano gli artigiani con le rispettive famiglie, il Cral che a sua volta gestisce iniziative culturali e la mensa. 

Il mio compito era di coordinare tutte queste attività.”

Così Massimo Lettieri presenta questa esperienza politica, economica e umana. Perché RiMaflow è stata ed è tutto questo ed anche di più, molto di più di quello che Massimo riesca a raccontare. Non solo perché non è un intellettuale, uno scrittore o un giornalista, avendo fatto per tutta la vita l’operaio, ma perché le emozioni e le paure, il coraggio, i desideri, la sfrontatezza, la temerarietà sfuggono al racconto. Si vivono lì per lì e fanno tremare le vene ai polsi quando tutto sembra andare male o incoraggiano ed entusiasmano quando il progetto pensato teoricamente e vissuto nel cuore e nella mente dei protagonisti prende forma e allora sorridono gli occhi e si espande il sorriso, per dire che nulla è impossibile se ci mettiamo l’impegno e l’idea che si possono sperimentare forme nuove di lavoro senza padroni e subalterni. 

Tutti con eguali diritti in un progetto di comunità dove non conta il profitto ma il bene comune, fatto di un minimo di salario garantito ma soprattutto della visione di una società più giusta, senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo e soprattutto di rispetto della terra.

Far pace con il Pianeta non solo è possibile, è necessario se vogliamo assicurare una terra vivibile a chi verrà dopo di noi. Tutto nasce da una situazione di crisi che coinvolge una fabbrica metalmeccanica a Trezzano sul Naviglio (Mi) nel 2010, la Maflow, che costruisce parti del sistema di condizionamento delle automobili, come era accaduto per moltissime altre situazioni in Italia e nel mondo. Scelte sbagliate da parte del management aziendale oppure la volontà di dislocare le aziende in altri stati europei o in zone depresse del mondo, più spesso anche in paesi governati da regimi dittatoriali dove si impongono ritmi di sfruttamento sovrumani e salari di fame. In questo modo si riesce a produrre ad un costo molto più basso e ad aumentare i profitti. E’ la logica che sovrintende una visione capitalistica di rapina. 



Molto diffusa nel mondo. Ma c’è chi non accetta questa logica. A partire dall’esperienza argentina dove la crisi economico produttiva costringe gli imprenditori a chiudere le aziende senza prospettive per i lavoratori dipendenti. Da questa condizione parte la necessità di trovare una risposta nell’organizzazione della fabbrica dal basso, mettendo insieme le esperienze professionali e gestendola  nella forma collettiva dell’autogestione. In Argentina più di 400 fabbriche ormai chiuse passano nelle mani dei lavoratori che riprendono a realizzare prodotti che richiede il mercato. Dall’Argentina queste esperienze seguono le crisi, passano in Francia dove un’azienda della Unilever a Marsiglia ritenuta improduttiva viene occupata dalle maestranze e riprende magicamente la sua attività, così in Grecia, colpita da una crisi finanziaria gravissima, in Turchia, ecc. Il dibattito e l’esigenza di dimostrare che è possibile produrre senza padroni coinvolge molte realtà in Italia, fra cui l’Officina Zero di Roma, una fabbrica che si occupava delle manutenzioni dei treni, e la Maflow, che entra in crisi, si riducono gli organici e poi viene venduta ad una azienda polacca, che manifesta l’intenzione di portare via i macchinari – cosa che poi farà –  e lascia i lavoratori senza prospettive.

La reazione non si fa attendere: si occupa lo stabilimento e si comincia a ragionare su che cosa fare, se arrendersi o costruire un’alternativa economica e politica. 

Matura l’idea che le ingiustizie sociali e lo sfruttamento possono e debbono essere superate attraverso una modalità diversa di produzione. Intanto nasce intorno alla fabbrica un movimento civile di sostegno. Si discute e si comincia ad attrezzare gli spazi. Arrivano a partecipare tanti artigiani che rimettono in circolo e condividono le loro capacità, si sperimentano forme di socialità nuove, fraterne, basate sull’idea che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura sono da aborrire, da combattere. Prevale l’impostazione del riuso e del recupero dei materiali e si sperimentano forme e progetti inventati dai partecipanti, fra cui il recupero del pvc dalla carta da parati. Insomma sorge e si afferma una comunità, la testimonianza che si può vivere e collaborare demandando decisioni e gestione all’assemblea in maniera democratica. E’ l’utopia al potere. E le autorità, si sa, temono esempi contagianti. Parte una denuncia per smaltimento irregolare dei rifiuti e scattano le manette per Massimo, due mesi di reclusione, per un reato inesistente e che avrebbe potuto comunque essere punito con gli arresti domiciliari. L’idea e la pratica dell’autogestione nasce e si sviluppa nella vicina Jugoslavia, quando era capofila dei paesi non allineati. Una modalità produttiva innovativa che non ha retto alle pressioni internazionali ed è esplosa la guerra. C’è la consapevolezza che solo un movimento internazionale possa rinsaldare questa esperienza che unisce fabbriche da tutto il mondo, dai Sem Terra ai cartoneros, un movimento di emarginati sociali che prende coscienza e assume direttamente sulle spalle il proprio destino sperimentando forme di produzione alternativa non solo nelle modalità e nei rapporti di solidarietà, ma anche nell’utilizzo dei materiali, nel riuso, nella sobrietà, nel rispetto dell’uomo e della madre terra. 



Massimo Lettieri esce dal carcere e decide con i compagni della sua avventura di accettare il rito abbreviato, rivendicando la sua scelta innovativa e umanitaria e rigettando comportamenti e visioni oppressive di una modalità organizzativa della società che produce guerre e sfruttamento. L’esperienza continua a svolgersi felicemente nei locali della RiMaflow, così ribattezzata, ricostruita grazie all’aiuto di chi all’esterno ha riconosciuto la straordinarietà di questa esperienza e l’ha sostenuta anche nei confronti del Tribunale che aveva avviato le procedure di sgombero dei locali. La forza di questa esperienza sta nel desiderio di immaginare una nuova società fatta di rapporti non subordinati ma di collaborazione fra gli uomini, le donne e con gli altri esseri viventi, rispettando la natura e traendo insegnamento dal passato, quando con grandi sacrifici si è scelto di combattere sulle montagne il fascismo come forma di oppressione politica e sociale. Ne è testimonianza l’Amaro Partigiano, realizzato da RiMaflow con la partecipazione di una associazione di giovani, un liquore che trae linfa e mescola le erbe di quelle montagne che hanno visto nascere l’alba della libertà. Aut Aut Aut Editore, Palermo, 2019, pp. 188, € 14,00.

PAOLO RAUSA

 

 


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